Biodiversità sotto attacco: “Stiamo erodendo la nostra sicurezza alimentare, la salute e la qualità di vita del mondo”
9 min lettura«Abbiamo spostato il nostro impatto sul pianeta di frontiera in frontiera. Ma stiamo finendo le frontiere da oltrepassare... Se continueremo a badare solo agli affari, come al solito, ci troveremo di fronte a un rapido declino della capacità della natura di darci quanto basta per il nostro sostentamento e di tamponare i cambiamenti climatici».
Non usa giri di parole Eduardo Brondizio, professore di antropologia all’Indiana State University e uno dei co-presidenti della piattaforma intergovernativa per le scienze e le politiche sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (Ibpes) dell’ONU. Dalle barriere coralline che spariscono sotto gli oceani alle foreste pluviali che diventano ruscelli nelle savane, la natura viene distrutta a una velocità da decine a centinaia di volte superiore alla media degli ultimi 10 anni. E l’accelerazione dell’impoverimento dei sistemi naturali di supporto alla vita della Terra sta mettendo a repentaglio la società umana. Il cambiamento climatico è uno dei fattori chiave di questa accelerazione, insieme al consumo di suolo, a quello delle risorse, all'inquinamento e alla diffusione di specie invasive.
È il risultato al quale è giunto uno studio della piattaforma delle Nazioni Unite sulla biodiversità durato 3 anni e che ha coinvolto oltre 450 scienziati e diplomatici. Sono raccolti oltre 15mila studi accademici e relazioni provenienti dalle comunità indigene che in prima linea convivono con i cambiamenti dei loro ecosistemi che hanno consentito non solo di fare un inventario delle specie presenti sul pianeta ma di studiare le interazioni tra biodiversità, clima e benessere dell’umanità.
Si tratta dell’analisi più completa mai fatta sulla salute della Terra ed è il secondo documento delle Nazioni Unite che solleva la questione dei rischi ai quali come comunità internazionale stiamo sottoponendo il pianeta dopo il rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dello scorso ottobre che aveva provato a prefigurare gli effetti più drammatici del riscaldamento globale nel caso in cui non riusciremo a limitare l'aumento delle temperature a 1,5 gradi entro i 2050.
La biomassa dei mammiferi selvatici è diminuita dell’82% rispetto alle origini, gli ecosistemi naturali hanno perso quasi il 50% delle loro aree, un milione di specie è a rischio estinzione. Il tutto in gran parte a causa delle azioni umane nonostante le persone in termini di biomassa rappresentino appena lo 0,01% di tutta la vita presente sulla Terra. Secondo uno studio della National Academy of Sciences, infatti, il pianeta è vissuto per l’82% da piante, il 13% da batteri, il 5% da animali (insetti, funghi, pesci, ecc.) e, come detto, soltanto lo 0,01% dall’uomo. In altre parole, conclude lo studio, 7,6 miliardi di persone stanno decidendo il futuro di tutti gli organismi e, con un’accelerazione negli ultimi 50 anni, portato al depauperamento dei mammiferi selvatici e degli ecosistemi naturali.
A third of mammals are currently at risk.
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— World Economic Forum (@wef) 23 maggio 2019
«La salute degli ecosistemi da cui dipendiamo noi e altre specie si sta deteriorando più rapidamente che mai. Stiamo erodendo i pilastri stessi delle nostre economie, dei nostri mezzi di sostentamento, della sicurezza alimentare, della salute e della qualità della vita del mondo intero», ha affermato Robert Watson, presidente di Ibpes, che ha aggiunto: «Abbiamo perso tempo. Dobbiamo agire ora».
Secondo quanto rilevato dal rapporto della piattaforma ONU, due specie di anfibi su cinque sono a rischio estinzione, così come un terzo dei coralli che formano la barriera corallina e quasi un terzo delle altre specie marine. Più prudenti le stime sugli insetti, cruciali per l’impollinazione delle piante: almeno uno su 10 è a rischio estinzione con conseguenze disastrose dal punto di vista economico. L’estinzione degli impollinatori ha messo a rischio la produzione agricola per un valore di quasi 520 miliardi di euro, mentre il degrado del suolo ha ridotto del 23% la produttività della superficie globale.
Gli impatti a catena sull’umanità – associati alla sempre maggiore carenza di acqua dolce e all’instabilità climatica – sono inquietanti e destinati a peggiorare senza drastici interventi correttivi, hanno scritto gli autori del rapporto.
Un’affermazione piuttosto netta per provenire da un rapporto delle Nazioni Unite i cui testi di solito sono il risultato di un attento equilibrio per far sì che ottengano il consenso di tutti i paesi membri, osserva Jonathan Watts sul Guardian.
«Abbiamo cercato di documentare lo stato critico in cui si trova il nostro pianeta affinché le persone si rendano conto di quanto siamo in difficoltà, ma allo stesso tempo abbiamo voluto dire che non è troppo tardi se modifichiamo investimenti, regole commerciali, consumo di suolo, comportamenti individuali come un minor consumo di carne e beni materiali. Questo è fondamentale per l’umanità. Non stiamo parlando solo di quante belle specie stanno andando in estinzione ma di come stiamo estinguendo il sistema che ci sostenta», ha dichiarato David Obura, uno dei principali autori del rapporto e massimo esperto sui coralli.
Cosa dice il rapporto
L’agricoltura e la pesca sono le principali cause del depauperamento del pianeta. Come avevamo già scritto in un altro articolo, la nostra produzione alimentare sta distruggendo il pianeta. La produzione di cibo è aumentata notevolmente negli ultimi 50 anni, contribuendo da un lato a nutrire una popolazione globale in costante incremento, a generare posti di lavoro e crescita economica, ma con costi elevati per la Terra, dall’altro.
La questione è complessa. Agricoltura, allevamento, alimentazione e cambiamento climatico sono strettamente legati tra di loro. Il cambiamento climatico ha un impatto sulla produzione e sulla qualità delle coltivazioni e del foraggio, sulla disponibilità di acqua, sulla crescita degli animali (per l’esposizione al caldo si riducono le dimensioni del corpo, il peso della carcassa e lo spessore del grasso) e sulla produzione di latte (la diminuzione cala a causa dell’aumento combinato di temperature e umidità relativa), sulle malattie (attraverso la nascita di nuovi agenti patogeni e di parassiti che colpiscono soprattutto le specie con habitat e mobilità limitata e con bassi tassi di riproduzione) e la loro riproduzione in seguito alla combinazione di più fattori come l’aumento delle temperature, della concentrazione di anidride carbonica e delle precipitazioni.
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L’intero ciclo di produzione degli alimenti contribuisce alle emissioni di gas serra e impatta sul pianeta in modo pesante perché nutrire sempre più persone sta alterando l’equilibrio tra agricoltura, allevamento e i diversi utilizzi dei suoli (cioè quelli destinati ai pascoli, alle coltivazioni e quelli lasciati a boschi e foreste).
Le aree di pascolo per i bovini, si legge nel rapporto, rappresentano circa il 25% della superficie mondiale senza ghiaccio e oltre il 18% delle emissioni globali di gas serra. La produzione agricola utilizza il 12% dei suoli e crea quasi il 7% delle emissioni.
Circa un terzo della superficie terrestre del mondo e tre quarti della sua acqua dolce, sottolineano i saggi accademici raccolti nel rapporto, sono ora dedicati alla produzione agricola o zootecnica. Allo stesso tempo, il degrado del suolo, in gran parte dovuto alla produzione di cibo, ha fatto sì che quasi un quarto dei terreni del pianeta sia meno produttivo di una volta.
Con il boom della produzione agricola negli ultimi 50 anni, i sistemi agricoli sono diventati eccessivamente semplificati spostandosi verso la produzione di un minor numero di colture e specie. "Questa perdita di diversità, compresa la diversità genetica, pone un serio rischio per la sicurezza alimentare globale esponendo molti sistemi agricoli a parassiti, agenti patogeni e agli effetti del cambiamenti climatici", afferma il rapporto.
I produttori agricoli dovrebbero invece essere incentivati a coltivare in modi che non sono solo più sostenibili, ma che permettono di immagazzinare carbonio nel suolo: “Esistono pratiche agricole sostenibili che migliorano la qualità dei suoli, favoriscono una maggiore produttività e altri servizi ecosistemici come il sequestro del carbonio e la regolamentazione della qualità dell'acqua".
La perdita più profonda, in termini di habitat, si registra nelle zone umide, prosciugate dell’83% dal 1700, con impatti a catena sulla qualità dell’acqua e sugli uccelli. Dal 2000 al 2013 le aree di foreste non toccate dalla produzione dell’uomo sono diminuite del 7%, un’area più grande di Francia e Regno Unito messe insieme.
Per quanto riguarda gli oceani, solo il 3% delle aree marine è libera dalla pressione umana. La pesca industriale si svolge in più della metà degli oceani in tutto il mondo, un terzo delle popolazioni ittiche è sovrasfruttata.
E poi ci sono gli impatti legati al consumo delle risorse e alla nostra produzione di rifiuti. Il sostentamento di quasi 8 miliardi di persone richiede 60 miliardi di risorse, quasi il doppio rispetto al 1980, nonostante la popolazione sia cresciuta solo del 66% da allora. Oltre l’80% delle acque di scarico viene immesso in flussi d’acqua, laghi, oceani senza alcun trattamento, insieme a 300 milioni di tonnellate di metalli pesanti, liquami tossici e altri scarichi industriali. I rifiuti di plastica sono dieci volte maggiori rispetto a 40 anni fa, colpendo l’86% delle tartarughe, il 44% degli uccelli e il 43% dei mammiferi marini. Il deflusso dei fertilizzanti ha creato 400 “zone morte”, un’area grande quanto il Regno Unito.
Cosa fare?
Il rapporto dell’ONU è chiaro. Bisogna pensare al clima e alla natura non come qualcosa di esclusivamente ambientale ma come una questione economica e di salute pubblica, che riguarda le catene di approvvigionamento, le risorse idriche, le infrastrutture tecnologiche, lo sviluppo e la perdita delle comunità.
«Il rapporto dipinge un quadro abbastanza preoccupante, ci dice che il pianeta è in una posizione difficile ma ci sono un sacco di cose positive che accadono. La pressione dell’opinione pubblica è sempre più alta e l’invito ai governi è quello di agire», ha detto Cristiana Paşca Palmer, a capo della Convention on Biological Diversity (CBD), la principale organizzazione per la biodiversità delle Nazioni Unite.
L’agenda del prossimo anno e mezzo è serrata. Per la prima volta, la questione della perdita di biodiversità sarà tema di discussione del G8. Il Regno Unito ha incaricato Partha Dasgupta, un professore dell'Università di Cambridge, di scrivere uno studio sui costi economici della natura sulla falsa riga del rapporto Stern del 2006 sull’economia del cambiamento climatico.
A settembre il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres inviterà i governi a presentare piani per ridurre le emissioni in occasione di un vertice sul clima. A dicembre, la conferenza ONU sempre sul clima in Cile dovrebbe concentrarsi sull'importanza della salute degli oceani. Nell'autunno 2020, la Cina ospiterà un vertice storico sulla biodiversità a Kunming per elaborare nuovi obiettivi globali dopo il fallimento del precedente incontro ad Aichi, in Giappone, nel 2010. Molti sperano che Kunming sia per la biodiversità quello che è stato Parigi nel 2015 per il cambiamento climatico.
In concomitanza con la pubblicazione del rapporto dell’ONU, i ministri dell’ambiente del paesi G7 hanno pubblicato la Carta di Metz sulla biodiversità. Il documento non vincolante invita a riconoscere il ruolo vitale della biodiversità nel contribuire alla regolamentazione del clima e ad aiutare le comunità a combattere i disastri naturali. Il gruppo si è inoltre impegnato a implementare "soluzioni basate sulla natura... che possono anche agevolare la mitigazione dei cambiamenti climatici e il ripristino degli ecosistemi".
Nel frattempo, la Cina (insieme alla Nuova Zelanda) sta dirigendo un gruppo di lavoro delle Nazioni Unite su nuove politiche basate sulla natura, in vista dell’incontro sul clima di settembre a New York. L'obiettivo è incoraggiare gli Stati a coniugare preservazione delle biodiversità agli impegni sul clima dopo l'Accordo di Parigi.
«Sebbene il cambiamento climatico non sia stato finora il motore dominante della perdita di biodiversità in molte parti del mondo, si prevede che diventerà come o più importante degli altri fattori di cambiamento», ha aggiunto Robert Watson, presidente di Ibpes, la piattaforma ONU autrice del rapporto. «Pertanto è essenziale affrontare insieme le questioni della perdita di biodiversità e dei cambiamenti climatici, il che significa che dobbiamo trasformare i modi in cui produciamo e utilizziamo l'energia».
Secondo il rapporto, le attuali strategie di conservazione, come la creazione di aree protette, vanno nella giusta direzione ma sono ancora misure insufficienti. L’ONU invita così a cambiamenti radicali nella società, nella politica, nell’economia e nella tecnologia. E suggerisce ai politici locali, nazionali e internazionali di investire in infrastrutture verdi, mappare gli effetti del commercio internazionale sul depauperamento della natura, elaborare nuove strategie che consentano di nutrire una popolazione sempre maggiore e di sopperire ai livelli disuguali di consumo di cibo, sviluppare una maggiore cooperazione tra i settori, promulgare nuove leggi sull’ambiente e far sì che vengano applicate.
È necessario, dice il rapporto, "un cambiamento nella definizione di ciò che una buona qualità della vita comporta, sganciando l'idea che una vita buona e significativa dipenda da un consumo materiale sempre crescente".
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